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Carla Marescalchi (1926-2021)

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Raffaelli Editore: Dall'io al sé - Trasmutare il piombo in oro - Sguardi - Conforto di Stelle - 

La Poesia e la Pittura di Carla Marescalchi

Per una donna bambina e secolare.*

di Davide Rondoni

C’è una furia e una precisione in queste poesie che scendono a volte sulla pagina come coltellate, o altre volte come mani rovesciate, stanche di vita e di angoscia. Una furia di nominare, quasi imprigionandola in parole, la buia forza che sembra render vana la vita, e farla ricadere su di un sé, provocando un amaro rimpianto, un libro contro il tempo vissuto e quanto abbiamo attraversato.

Nominandola, in questi testi, si vorrebbe paralizzare la Gorgone, sortire l’effetto contrario alla paralisi di una non vita che essa inocula alla nostra vita.

Una furia dunque, che taglia nel ferro i versi, li incide. E una precisione poiché sia che si tratti dell’antico orsetto di peluche, o di un film, o di Sant’Apollinare in Classe, le occasioni per osservare quanto inquieta o esalta la vita sono colte con precisione, senza generica autoriflessione.

Testi forti, dunque, ripartiti dall’autrice in una raccolta che è sì un autoritratto senza censure di un’anima, ma è anche una traccia offerta a chiunque di noi traversi queste valli della vita incontrando la Gorgone. Il lessico è asciutto, privo degli svenevoli trucchetti che in molti, in troppi usano per addobbare il niente di cui scrivono. Qui invece c’é il tutto di una vita, convulsa e segreta, vivacissima anche nelle sue costrizioni, avvampante anche nelle sue penombre.

L’autrice, vivissima e ritirata, dà qui testimonianza di un lungo lavoro, di un suo custodito tesoro. L’incedere è scabro, memore certo della voce ungarettiana che tutti ha obbligato a scrivere sentendo maggiormente il peso delle parole.

Ma c’é pure una strana, baluginante, a volte adocchiante dolcezza. Una cortesia verso se stessa, quasi a raggiungere, o almeno a intravvedere come una pianura durante il gran cammino, uno sguardo rasserenato su di sé. Conquista di un’antica e sempre nuova saggezza che, ancora una volta, cerca di farsi poesia e voce per tutti.

* dalla prefazione alla raccolta “Dall’io al sé” - © Raffaelli Editore - Rimini 2008

VITA CHE SCORRE E SI PERDE FRA LE SCHIUME DEL TEMPO.*

Lino Cavallari

Carla Marescalchi, ex insegnante di lettere classiche ed ora pittrice a tempo pieno, ma anche autrice di versi incisivi ed illuminanti sull’asprezza del vivere.

E’ imbarazzante ammettere quanti tipi di approccio possano esistere per descrivere un’artista colta e dalla personalità decisamente complessa,un tantino eccentrica, pronta a catturare ogni idea suggestiva con un’ironia che lei estende al mondo intero, ma che applica anche a se stessa.

La via giusta sta nell’argomentare non solo sul dramma dell’esistenza, ma anche sul sollievo proveniente dalla fede, che potrebbe regalare momenti di gioia e beatitudine? Oppure ricorrere all’estetica del Bello e del Sublime, enfatizzare la funzione consolatrice della pittura e della poesia che la ispirano con segnali di premonizione in questo angoscioso disincanto di fine secolo e di fine millennio?

Tropo banale e scontato.

Potrei caricare la pittrice bolognese, fortificata da mille travagli, di una vena crepuscolare che probabilmente nemmeno ha, affermando che ogni sua allegoria è come una goccia che riga il vetro da cui la Marescalchi guarda il fluire della vita, come una risacca che lascia la sua schiuma pronta a formarsi e a dissolversi, per interrogarmi: forse sono lacrime? Lasciando poi aperto un ventaglio di ipotesi (le sue forme primarie, maschere nude pirandelliane, sono personaggi incompiuti, gusci vuoti in cerca di una loro consistenza?) e rispondendomi con indolenza: Chissà...Ma i puntini di sospensione sarebbero degli sgravi di responsabilità da parte mia.

Non sarebbe neppure male affermare, ad esempio, che in tempi in cui il falso appare vero e il vero assume tutte le sembianze del falso, l’unico punto sicuro per la Marescalchi è la convinzione del trascedente in qualche modo fattosi visibile e accolto come referente privilegiato.Volendo significare che le dottrine arcane del repertorio dei pittori colti per conferire nobiltà alla loro opera, come la numerologia pitagorica, la cromatosofia (cioè la predilezione meditata per determinati colori),la sintesi degli opposti come il bianco e il nero, il dolore e la gioia, la vita e la morte, il maschile e il femminile (Yin e Yang secondo le filosofie orientali), il cyberspazio virtuale, perfino l’alchimia o gli sconfinamenti nelo spazio New Age, ecc., sono faticose esplorazioni conoscitive. Ma sarebbero ulteriori orpelli, perché questi concetti appartengono ormai al caalogo delle idee ricevute e non incantano più di tanto.

Strada facendo, con un po’ per scherzo ma con buona aderenza alla realtà, ho citato molte delle caratteristiche che contraddistinguono Carla Marescalchi nel panorama della pittura bolognese contemporanea. Ora, più seriamente e alla maniera del bravo cronista d’arte, vorrei invece raccontarla come mi è parsa in un paio di ricognizioni nell’ambiente in cui vive e lavora, gremito da decine di sue tele alle pareti e accatastate ovunque, e in numerose conversazioni domenicali sotto i portici di via Santo Stefano da lei percorsi un tratto in bici e un tratto a piedi, coperta da un pelliccione e con un berretto a colbacco mentre anch’io camminavo, infreddolito, nel corso dell’ultimo inverno.

Nelle concitate conversazioni la pittrice-poetessa mi è parsa sempre sotto l’urgenza dei pensieri, anticipando i successivi con intercalari tipo “Senta questa” e “Ne vuol sapere una?”. Eccone dunque una, quasi sussurrata all’orecchio: “Magma immemore / del Fuoco primordiale d’amore / sotto il dolore che preme / m’indurisco in pietra / Non so farmi diamante”.

“E’ dunque lei, questa?”. “Lo ero – questa la risposta – ma dopo che ho conosciuto tante cose, tra cui validissima la psicosintesi transpersonale dello psichiatra e psicologo Roberto Assagioli, mi sono mossa”. “ E in che rapporto è col prossimo?”. “Lo devo recuperare amando Dio: però, quant’è difficile amare il prossimo. So condividere le pene di tutti ma non so ancora amare, scrissi qualche tempo fa. Ci sto ancora provando, con buone speranze”.

Ha appena terminato un lunghissimo ciclo di dipinti immersi in una tonalità rossastra. Qualcuno, tanto tempo fa, quando ancora lei non si curava di stili e di correnti, l’aveva inserita in una ramificazione della Scuola romana di Scipione e di Mafai. Era stato il pittore Walter Lazzaro, quello degli ombrelloni aperti su solitudini marine, noto per la severità dei giudizi. Nel ’70 le disse, a proposito di uno dei suoi primi dipinti, “La fanciulla triste”: “Perchè viene a chiedere a me se è buono o no? Queso è un capolavoro”.

Avversata dalla famiglia per la sua propensione alla pittura, allergica ai colori ad olio, una ventina di anni fa fece la scoperta degli acrilici per merito del pittore, Michele Salemi, padre di una sua allieva del liceo classico e da allora, per l’innocuità dei materiali, fu un dilagare di variazioni sulla pena del vivere, forte degli insegnamenti ricevuti in età giovanile dal pittore Amleto Montevecchi, poi negli anni ’70, all’Accademia, e infine, dal ’91 al ’96, alla Scuola del nudo, con Mazza e Chiarini come docenti. Un’altra spinta, decisiva nel mettersi in proprio, la ebbe dal pittore Enrico Biancani, che la vedeva assidua a tutte le mostre possibili. Volutamente le sue numerosissime raffigurazioni di modelli viventi, specie se femminili, appaiono iconiche, castigate, dolenti. Alcune figure, ammette, alludono ad un rimpianto della sua vita non vissuta nella sua interezza, all’amore non dato e non avuto o sembrano scrutare il destino simboleggiato in immagini arcane, ovunque però con l’ansia dell’ assoluto. Altre tele, con le metafore della squadra e dei libri, puntano più incisivamente alle delusioni conseguenti alle promesse della scienza e della filosofia.

La vera ossessione sono però le maschere come simulazione di volti, un chiaro riferimento a quell’uniforme facciale e corporea, peraltro non corrispondente al vero, che ciascuno di noi indossa fino al termine dei suoi giorni: “Maschere vuote / vediamo frammenti di fede e di amore / vagare nel cosmo / irrevocabili”.

Un mimetismo obliquo che arriva all’ossatura di ogni situazione episodica: maschere disposte con ventagli, confortate da stelle, ammonticchiate in uno spot sanguigno, da tragedia, con le loro bocche spalancate da cui esprimono urla silenziose. Inquietanti come molte vedute, anzi visioni, di Bologna: infuocate, espressionistiche, apocalittiche. Ma nel tempo, ha saputo dedicarsi anche a ritratti tradizionali di donne (ricca di pathos un’espressione della madre); e nel retro di alcune tele vi è anche un accompagnamento poetico. Adesso è passata ad una altra tonalità, è entrata nel suo periodo blu: quello delle galassie cosmiche. Questa raggiunta maturità nella composizione spesso rasenta l’astrazione e il misticismo. E’ stata dunque accantonata la fase rossa? No, dice, ci sono dei ritorni di fiamma, anche per via di quei violetti così vicini nella abituale scala dei toni. Nello sfondo dei paesaggi c’è sempre una luce, presagio di salvezza o radiazione purificatrice. Recentissimamente mi ha informato, ha messo mano a un ciclo di dipinti semi-astratti ambientati su spiagge, con presenze umane dal sapore sironiano sorprese in una fissità che desta interrogativi.

Così, fra citazioni e declamazioni, aperta ad esperienze sempre nuove, Carla Marescalchi mi pare difficilmente catalogabile. Mi ritorna in mente una delle sue liriche brevi ma penetranti, recitata sottovoce: “Non sono il corpo mortale / non la mente superba / né il groviglio del cuore. / Sono una scintilla di luce / sepolta tra le cose / prendo su me la crociata / di infrangere l’assurdo / che mi separa dal Tutto.”

* Dalla prefazione al catalogo edito nel 2001 in occasione della Mostra:

“CARLA MARESCALCHI TRENT’ANNI DI PITTURA 1970 – 2000” ,

curata da Alberto Quattrini presso la Galleria d’Arte del Caminetto di Bologna.

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